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Non ragioniam di Davis, ma guarda e passa.

Unforgiven79

Si è appena conclusa la seconda edizione della “nuova” Coppa Davis; si sono spente le luci del palazzetto di Madrid sulla competizione; è stato iscritto lo (strano) nome affibbiato alla Russia per far finta di averla punita per aver fatto la birbante con le sostanze dopanti (“lei ce le ha mandate fatte, ma noi gliene abbiamo dette”); è stato presumibilmente incassato l’assegno annuale che il fondo Kosmos aveva pattuito nel 2019 con la ITF, per una cifra che solo l’incapacità di fare previsioni virologiche può giustificare.

“Abbiamo la Davis – solo una’ecatombe potrà fermarci!”

Tutto è cessato, tranne l’odio viscerale che gli inguaribili conservatori provano per questa nuova formula del torneo. Si accese, questo odio, subito due anni fa, quando il presidente ITF David Haggerty raccolse voti sufficienti tra le federazioni per far passare la sua proposta per rilanciare finalmente il torneo (e buon per lui, dato che era l’iniziativa per la quale aveva poggiato le terga sulla graticola) e si ebbe il via libera per avere una competizione rinnovata, sulla quale i quattrini di Gerard Piqué e soci potevano venir spesi… Tu quoque? Eh sì, perché persino la nostrana FIT alla fine votò a favore, facilitata nella scelta dall’essere dotata di pluridecennale presidente che dell’apprezzamento dei propri affiliati non prova affatto bisogno.

Ad ogni modo, perché questo astio verso la nuova formula? Beh, i motivi che si leggono sono sostanzialmente due: aver abolito i tie lunghi un week-end intero in casa di una delle due squadre nazionali, in favore di gironi settimanali in terra neutra, ed esser passati (conseguentemente) da cinque rubber disputati su partite sul 3/5 come negli Slam a tre sole, nella più veloce formula 2/3. In sostanza, l’accusa è di aver abolito le due componenti, quella folkloristica e quella epica, che tanto caratterizzavano la manifestazione. Ciò non bastasse, il tutto è stato fatto in nome del dio denaro, come si usa dire con facile liricità quando si vogliono lerciare iniziative che non ci piacciono, dando al contempo un’aura di nobiltà alle proprie convinzioni (come se le organizzazioni di tutela non avessero anch’esse un bilancio da far quadrare).

Il senso nostalgico è comprensibile: torneo più unico che raro, di tradizione antichissima e frequentazioni illustrissime, aveva i pregi di portare il tifo nazionale all’interno di un palazzetto di tennis (sport internazionale se mai ce n’è uno) e di trasformare atleti di non primissimo livello in eroi di giornata. Inoltre, sapeva generare cameratismo tra giocatori che per tutto il resto dell’anno non nascondevano rivalità al limite dell’ostilità (l’esempio più eclatante è forse quello di Jimmy Connors e John McEnroe, che in tour erano sempre lì lì per venire alle mani, ma anche i teutonici Becker e Stich si trovavano ad ogni tie a dover seppellire l’ascia di guerra). Tuttavia, personalmente nulla di quanto è stato abbandonato mi causa particolari magoni.

“La vecchia Davis è morta…”
“…viva la Davis!”

Nel mio cuore tennistico, due sono i motivi per cui la vecchia Coppa Davis mi ha sempre lasciato colpevolmente indifferente: uno è razionale, l’altro puramente emotivo.

Quando scopri che vi hanno estratti in casa, quindi potrai realizzare il sogno di giocare sul rosso indoor d’inverno

Razionalità vorrebbe che questa coppa mettesse in palio fra le Nazioni tennistiche un titolo annuale di livello assoluto, cioè un vero e proprio titolo mondiale per quella più forte dell’anno. Di conseguenza, le concorrenti, cioè i Paesi del World Group, avrebbero dovuto competere in condizioni di assoluta, sportiva equità. Ma nemmeno per sogno questo accadeva! Anche limitandoci al solo post-1973 (fino ad allora era sopravvissuto il challenge round, con il vincitore uscente che attendeva comodo in finale il sopravvissuto delle eliminatorie, ed alé!), gli scontri tra le nazioni sono state improntate da meno equità in partenza del sistema scolastico indiano: si gioca in casa di una delle due federazioni (in base a quale criterio, lo ammetto, non sono riuscito a rintracciare documentazione), la quale può per di più stabilire autonomamente quale sarà la superficie di gioco. Gli aristocratici duelli all’ultimo sangue dei secoli scorsi sono giustamente stati aboliti, ma va detto che almeno garantivano allo sfidato la scelta dell’arma, galanteria che l’aristocratica Davis ha sempre ignorato. Qualcuno mi saprà forse spiegare come possa essere titolata a “squadra nazionale più forte del mondo” la vincitrice di un torneo con una simile stortura, figlia delle limitate logistiche di inizio Novecento, ma assolutamente ingiustificabili negli ultimi anni… e diciamo pure che non è che le squadre di casa non ne abbiano approfittato spudoratamente, negli anni: quante ne abbiamo viste, di finali di Coppa disputate a dicembre su campi in terra rossa indoor posticci per rallentare degli Americani, o cementi velocissimi gettati giù in quattro e quattr’otto d’estate per mettere in difficoltà la Spagna? A josa.

Un altro, clamoroso fastidio che mi procura questa formula è il fatto che i giochi, più spesso che altro, si decidano tra venerdì e sabato, ed a volte i primi due rubber del giorno feriale già dirimono la contesa… qui non me la prendo se ai detentori dei diritti televisivi viene il mal di testa: ma se un tie smuove le masse, perché non incentrarne la programmazione di sabato e domenica, quando molta gente comune ha il tempo di dedicarvisi?!? A questo quesito la vecchia Coppa risponde con la stessa domanda che fece di rimando la Contessa Madre Violet Crawley: “…che cos’è il week-end?“.

“…week-end di Davis?”

Sono storture ammantate di tradizione, in realtà figlie di condizioni logistiche anacronistiche, risalenti al primo Novecento quando era già tanto che la squadra in visita riuscisse a raggiungere in tempo utile la sede della disfida, e lì si giocasse su quello che il club poteva offrire. [Digressione: è analogo il caso (per me altrettanto obbrobrioso) delle facili naturalizzazioni (pardon, equiparazioni) che incorrono nel rugby a 15 internazionale: con tre anni di residenza continuativa in una diversa Nazione, se ne può vestire la maglia. Assurdo. E’ una regola che risale ai tempi dell’Impero Britannico, quando erano tutti sudditi dello stesso monarca e si spostavano con frequenza fra i dominions in cerca di fortuna. Oggi è tutto diverso, ma alla vecchia regola si è messo mano con estrema timidezza.]

Il sentimento vorrebbe invece che questa Coppa mi abbia sempre riempito di orgoglio sportivo patriottico. Mi è sempre apparsa invece come un rifugio nazional-popolare a nascondere le nostre pochezze. Ho iniziato a seguirla ad inizio Anni Novanta e, sebbene a volte mi fossi lasciato trasportare anch’io dal tifo, una domanda mi ronzava in mente: ma se riusciamo a malapena ad avere un giocatore in Top-50, come possiamo anche solo ambire a competere per il titolo di Campioni del Mondo? In particolar modo nel 1998, arrivati in finale, sarebbe parso giusto che battessimo la squadra di Norman, Bjorkman e Kulti coi nostri miracolati? Per cosa, poi? Per sentirci in cima ad un monte di cui non riuscivamo a scalare le appendici?

Andrea Gaudenzi quasi raggiunse la vetta del tennis già nel 1998

Nel Tour vero, quello del livello di gioco dettato dai Sampras, Agassi, Becker, Muester e compagnia non si riusciva a sfornare un giocatore che arrivasse con qualche regolarità alla seconda settimana degli Slam. Poi però la Davis, con la sua formula bislacca che consente di fare cappotto se azzecchi il turno in casa ed il mal di pancia del giocatore di punta avversario, sarebbe dovuto essere il nostro riscatto. Della mutua. E poco contribuiva a dare serio lustro al tutto il fatto che, per motivo di diritti televisivi, alla fine le partite del tour venissero commentate dai sublimi Tommasi e Clerici, e quelle della Davis dal recentemente compianto Bisteccone, il quale, con grandissima passione ed insufficiente livello tecnico, risultava lo specchio più fedele dell’approccio del nostro movimento all’Insalatiera. Negli Stati Uniti si chiedevano chi avrebbe vinto la finale dello US Open tra Pete ed Andre, da noi se saremmo stati estratti in casa nei quarti di Davis, sbandierando tracotanti il successo di essere l’unica squadra mai retrocessa dal World Group (nel 2000 alla fine crollò anche questo infimo totem). Non infierisco ulteriormente e la faccio breve, ma brutale: la Davis e gli Internazionali di Roma erano le due pezze al sedere per non guardare in faccia una realtà nella quale in Italia si giocava tantissimo a tennis, ma non si riusciva a produrre un giocatore che sapesse raggiungere la ribalta internazionale (ci facevano buona compagnia i britannici, beninteso) e per i tornei veramente prestigiosi toccava trovarsi un beniamino tra i giocatori stranieri.

Trionfo di squadra

Non mi stupisce molto, comunque, che il trofeo abbia preso ad attirare i campioni d’elite veri con lo stesso appeal con cui una comune insalatiera attira i bambini: poco gusto, se non fastidio. La questione economica è, lo ammetto, il gatto che si morde la coda: se i campioni non partecipano, gli sponsor non allentano i cordoni della borsa, ed i campioni se ne allontanano ulteriormente (situazione per risolvere la quale non andava coinvolto Mr. Piqué, quanto Mr. Nyquist). Provando a metterci però nella testa in Top10, cioè di un fuoriclasse che deve ponderare maniacalmente la programmazione stagionale ed il dispendio di energie fisiche e mentali, è legittimo finire col chiedersi: perché devo andare a giocare un 3/5 in un week-end lungo in mezzo alla stagione dei Master 1000, rischiando l’infortunio? Perché devo andare a giocare sulla terra nel bel mezzo della stagione sul cemento, rischiando l’infortunio? Perché devo scendere in campo a giocare un doppio lungo come il passio contro la miglior coppia del mondo, rischiando l’infortunio? Perché devo sottostare ai vezzi di un ex-giocatore imbolsito nominato capitano dai federali, che magari mi butta in campo per disperazione, rischiando l’infortunio? Ma soprattutto: se proprio ci tengo, non basta che io aspetti l’anno buono in cui gli altri divini miei pari annunciano di marcare visita (perché da un paio di decenni ormai lo fanno, senza nemmeno rischiar l’oltraggio al pudore)? Mi rendo disponibile, sconfiggo un paio di carneadi a tie, magari ci scappa un quinto set per ammantare di epicità l’impresa, porto a casa il reperto e mi sono guadagnato gratitudine eterna dalla mia federazione (dopo i quarta potrò fare solo il coach, quindi meglio tenerseli buoni). Federer ha fatto così. Murray ha fatto così. Nadal è sempre stato più devoto alla bandiera, ma ai primi scricchiolii non se l’è sentita di gettare il menisco oltre l’ostacolo. Djokovic mantiene una lealtà commovente, ma sa anche che, tolto lui, la Serbia ha ben poco per arrivare in fondo. Era chiaro che avrebbero presto fatto lo stesso, a turno, anche i vari Zverev, Tsitsipas, Medvedev, e noi ci saremmo trovati con un torneo destinato ad un eterno livello di competitività “a rotazione”.

Resa quindi la sintesi tra ragione e sentimento, non resta che chiedersi se lo “scempio” di Kosmos abbia fatto dunque tutti questi danni. Certo, costringe a rinunciare ai palazzetti infuocati, ai tamburi roboanti, alle grida d’insulto al primo cenno di protesta con l’arbitro del giocatore non di casa? Sì: si rinuncia al famoso “clima da Davis”… o famigerato, perché è poco credibile che il barone Von Cramm lo avesse apprezzato. D’altra parte, però, mette la pezza alle due principali aberrazioni sportive e logistiche del torneo: quasi tutte le squadre competono in condizioni di partenza uguali (tranne quella di casa, che ha un vantaggio, ma annacquato), le partite al 2/3 consentono una programmazione razionale e meno mal di pancia da parte dei campionissimi impegnati altrove nell’inseguire i majors. Da non tralasciare è il fatto che i tie su tre match ridanno vigore ed importanza al doppio, disciplina che per me è un sport a parte, ma sulla cui importanza e diffusione non si può discutere. Quindi, la supposta associazione a delinquere ITF-Kosmos non ha trasformato la Davis in un videogioco (come invece l’ATP ha fatto con le NextGen Finals…), ma l’ha mutata da campionato stagionale, ingombrante e sterile, in un meeting dello sport, frequentato da quasi tutti i migliori. Si è solo migrati, in fondo, da una formula tradizionale ad un’altra.

C’è chi è rimasto scottato dalla vicenda perché amava la vecchia formula? Mi dispiace per loro. Non si poteva pretendere che uno sponsor investisse una cifra abnorme in un torneo che dava tutti i sintomi del declino irreversibile da problemi sistematici mai risolti (e temo che qualcuno lo pretendesse davvero). Né si poteva pretendere che l’ITF rinunciasse a tale sponsorizzazione: prima di accusarla di avidità, ricordiamoci che ha in essere una miriade di iniziative per portare il tennis dove economicamente non è sostenibile e di sostenere federazioni che non hanno i mezzi per sviluppare i propri giocatori meritevoli, e sono attività in cui si trova a dover investire milioni di euro.

Personalmente, comunque, non ho granché degnato d’attenzione le prime due edizioni. Nessuna ostilità: a differenza dei detrattori, non faccio una colpa all’organizzazione per aver generato situazioni da night-club durante la prima edizione: quando ci si avventura in territori inesplorati, prima o poi capita di pestare una… pozzanghera. L’importante è segnarsela e non inzaccherarsi al secondo giro, come pare sia successo. Ne stanno già pestando un’altra: l’ipotesi delle fasi finali ad Abu Dhabi è completamente errata strategicamente e dà il fianco alle già persistenti critiche, ma probabilmente è più figlia delle incertezze dovute al Covid che altro…ed ad ogni modo, dopo questi fantomatici cinque anni, auspicabilmente in tempi smascherinati, si potrà tornare in una sede ove per il pubblico il tennis non è merchandising allo stato puro.

Il motivo del mio persistente disinteresse è che, risolti gli impicci razionali, mi rimane questa freddezza sentimentale verso l’Insalatiera, anche ora che la squadra italiana è legittimata a sentirsi in competizione per vincerla: con due giocatori in Top-10 e tornei nel circuito che vengono vinti con cadenza quasi bimensile, la Davis sarebbe null’altro che una giusta consacrazione (come fu nel 1976). Qui, ammetto, il problema è solo mio e di qualche altro cresciuto nei grigi anni Novanta da tennis italiano grunge: non di Piqué, né di Haggerty o degli incorreggibili nostalgici che li insultano.

Seeding

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Andrea Canella
Andrea Canella
2 years ago

Gran bel pezzo. Complimenti a Unforgiven 79. Mi è piaciuta l’ affermazione “…..problema è solo mio e di qualche altro cresciuto nei grigi anni Novanta da tennis italiano grunge…..”. Mi identifico nell’affermazione, in quanto il tennis Italiano anni 90 era veramente grunge!

Roberto
Roberto
Reply to  Andrea Canella
2 years ago

Mi associo ai complimenti di Andrea. Davvero bello

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