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Tornare sull’Erba, per la Prima Volta

Unforgiven79

Ora che Wimbledon si è concluso, con la romantica appendice di Newport e del suo museo della Hall of Fame, anche per quest’anno riporremo nel cassetto il tennis su erba e ne relegheremo le migliori gesta ai video di YouTube da guardare a tempo perso.

Salvo viverle.

E’ sempre stato un mio sogno di tennista dilettante quello di poter sperimentare, se non proprio i verdi campi in quel di Church Road, almeno dei solidi simulacri in naturale erba vera. Certo, ho più volte giocato sulla superficie con l’erbetta artificiale, ferale retaggio di quel Grande Declino che ci fu nei primissimi anni Duemila, quando l’ormai ineluttabile ritiro di Pete Sampras e della sua corte di eroi della racchetta (Becker, Rafter, Ivanisevic, Korda, Muester, Agassi che pur avrebbe galleggiato ai vertici ancora per qualche anno) ebbe un contraccolpo anche nei nostri circoli: non esattamente esaltati dai nuovi picchiatori padellati alla Safin & Hewitt, i giocatori casuali languivano e molte strutture dovettero convertirsi, almeno parzialmente, ai campetti per il calcio a 5. In regime di convivenza, se non altro i tennisti avevano l’occasione di sperimentare dei campi veloci, purché non dopo le 20:00 della sera, che diventava la fascia oraria in cui l’orda degli Orchi pallonari invadeva la Contea. Il rimbalzo più veloce (in un periodo in cui persino l’All England Club rallentava i propri!) dava qualche ulteriore soddisfazione a chi, come me, tentava i serve’n’volley ed i chip’n’charge, che come i Guns N’Roses erano allora oramai tragicamente fuori moda.

Tuttavia, in fondo all’animo mi chiedevo se il tennis su erba vera non avesse una nota di unicità in più.

Così, mentre il Re più moderno sfornato dalla Repubblica più antica riportava ai fasti d’un tempo il tennis su erba sfoggiando il meglio del proprio repertorio in quel di Londra ad ogni tardo giugno, io vagheggiavo di volare da quelle parti portandomi dietro le racchette come bagaglio imbarcato. Una volta atterrato, sarei andato in cerca dei più accessibili cambi in verde naturale su cui si potesse giocare: non certo quelli dell’All England, sacri e guardati a vista dallo sguardo paterno e severo dell’Head Gardener, ma magari quelli attigui di Roehampton dove gli aspiranti stregoni fuori dalla Top-100 si disputano l’accesso al Tempio. O anche un campetto sperduto nella campagna inglese, purché tenuto decorosamente ed azzeccando un giorno senza pioggia. Insomma, su questo ho rimuginato per anni, continuando a limitarmi a guardare il tennis erbivoro in televisione.

Fino a quando l’amico Daniele non mi illuminò durante un breve scambio di messaggi su Watsapp.

Salta fuori dunque che, inaspettatamente, i campi in erba ce li abbiamo e, pure, a quaranta minuti da casa. Sì, sapevo del nuovo torneo del circolo di Gaiba, nel rovigotto, subito battezzato Gaibledon. Quello che Daniele mi dischiuse fu l’esistenza di un nuovo club a Resana, che per i diversamente veneti è dalle parti di Castelfranco Veneto, con ben quattro (dicesi, quattro!) campi in puro e naturale manto erboso. Non starò qui a cercare di mantenere un improbabile contegno, essendo il tennista di Quarta categoria un predatore feroce di tutto ciò che gli possa far annusare l’aroma del Tour: tempo neanche ventiquattro ore ed avevamo ambedue limitato la giornata lavorativa per poter (con ruota alta e scarico ferocemente scoppiettante) lanciarci in statale con le borse nel bagagliaio, in direzione di Resana alla volta del San Marco Tennis Academy, il nostro personale Eldorado.

Giunto a questo punto, se non altro per giustizia nei confronti di chi ha messo su questa struttura, sarei opportuno nell’aprire una veloce digressione storica sul come e perché sia nato. Tuttavia, il tennista è un sublime egoista e quindi posticipo: andiamo subito al succo della questione e del gioco.

Dunque, ad onor del vero, il buon Daniele aveva già sperimentato qualche giorno prima questi campi e quindi si mette di buon grado a farmi da Cicerone. Questa è la mia salvezza, o meglio la nostra, perché due neofiti che si accingessero a sfidarsi sul tappeto verde per la prima volta sarebbero cosa davvero buffa a vedersi: la partita, vista da fuori, apparirebbe a mezza via tra una gara di mimi scarsi ed una caccia alle cavallette. Io ero arrivato con il solo bagaglio di conoscenze derivatomi dalle interviste dei pro, i quali sempre sottolineano come sull’erba si debba stare con le ginocchia basse ed, ingenuamente, pensavo che tanto bastasse per adattarsi alla superficie (come, appunto, nel caso dei campi in artificiale). Non avevo dato sufficiente peso a Daniele, il quale aveva sentenziato serafico in auto: “Vedrai, è un altro sport.”.

Arriviamo dunque ai campi, ci facciamo indicare il nostro dall’affabile Matteo e ne prendiamo temporaneo possesso, poggiando le borse e tirando fuori l’attrezzatura. In tutto questo breve lasso di tempo, io mi sforzo di non svenire, steso da una sindrome di Stendhal di ultimo grado, e di non gettarmi a terra per tastare cotanta meraviglia, per essere sicuro che non sia un miraggio e che esiste davvero.

Esiste davvero, cotanta meraviglia. Ed è infingarda.

La lezione tecnica che, posizionandoci in campo, Daniele mi impartisce dura tre secondi ed è la migliore che si possa ricevere: “Guarda, ti spiego subito il concetto!”. Prende una pallina, la tiene con la mano ed il braccio disteso in alto, quindi la lascia cadere per terra, e… poff! Con uno sbuffo, la palla rimbalza di malavoglia per non più di dieci centimetri di lato e tre in altezza. “Questo è quello che succede al rimbalzo. Per i primi dieci minuti non ci capirai nulla, ma stai tranquillo: è normale.”.

Io, per l’occorrenza, avevo lasciato in borsa le mie due oramai fedeli Blade, ritoccate col piombo senza ritegno come un’attrice hollywoodiana fa col silicone, ed ero ritornato alla sempre gloriosa Pro Staff: diamine, se devo tentare di ricreare le sensazioni maestosamente domate dagli Edberg-Sampras-Federer, non posso esimermi dall’impiegare la leggendaria mazza ferrata da 340g non incordata.

Cominciamo dunque a palleggiare ed, effettivamente, nei primi minuti vado spesso, troppo spesso, a farfalle. Tra il corto rimbalzo e le inevitabili irregolarità del terreno, anche se sfoggi un polso alla Leander Paes finisci comunque con la palla che ti passa sotto la racchetta. E’ quindi dopo un po’ di queste figure barbine che anche il mio limitato cervellino capisce dove sta la vera difficoltà: non è tanto l’altezza del rimbalzo, quanto la sua stitica gettata a generare tutti quelle ridicole piroette a vuoto. Dunque, si deve andare incontro al punto del rimbalzo, accorciando la distanza ed iniziando il movimento non appena la palla tocca terra… pardon, erba. Va da sé che il polso deve aiutare, aggiustando l’approccio finale della racchetta sulla palla.

Per il resto, tutte quelle leggende circa l’efficacia del back e dello slice, l’importanza di una prima carica e tagliata, la facilità a chiudere di volée e l’opportunità di fare le drop-volley… beh, son tutte vere. Qualsiasi colpo che schiacci la palla a terra acquisisce rinnovato potere sul risultato della partita e mette temporaneamente in uno sgabuzzino tutte le atroci modernità figlie di un top-spin esasperato. I fondamentali figli di un dio minore, insomma, assumono nuova luce agli occhi dell’adepto. Pure le volée in tuffo accadono, e per davvero, però lì, almeno nel mio caso, si rivela come sì la leggenda abbia sempre un fondo di realtà, ma non necessariamente quello voluto: in sostanza, sono i cambi di direzione improvvisi che causano una perdita di aderenza sotto le suole e, dunque, non rimane altro che lanciare la racchetta e proiettarsi in un tuffo che non avrebbe forse reso orgoglioso Becker, ma di sicuro Inzaghi sì. Ecco perché si può giocare fino al massimo alle 20:30, poi il suolo diventa troppo umido ed è impossibile competere seriamente.

Insomma, in conclusione è stata un’ora di pura gioia tennistica.

Ci rimane dunque solo da capire l’antefatto o, più precisamente: che diamine ci fa, lì, un circolo con quattro campi in erba (più due in sintetico in fase di ultimazione) curatissima, nel bel mezzo della campagna castellana? Matteo mette giù il decespugliatore col quale ha dato l’ennesima rifinitura ai bordi e ci spiega: l’anno scorso lui ed i suoi compari di ventura (tutti appassionati puri) avevano chiuso l’esperienza di Vedelago ed avevano identificato quel lotto di proprietà comunale, dove giacevano la struttura del pattinaggio ed un vecchio campo da calcio abbandonato a se stesso, per riaprire un loro circolo. D’altra parte, però, un circolo a Resana c’era già e, da buon club tennistico sotto le Alpi e sopra le Piramidi, ha i campi in terra rossa: non è carino aprirgliene un altro sotto casa. Ringraziando per una volta i patti di non-concorrenza, i Nostri hanno la (sempre benedetta) idea di tramutare il campo da calcio in quattro lawn tennis courts e, con tanto impegno e pazienza, ecco il risultato da stropicciarsi gli occhi (i nostri).

Quando scrivo “tanto impegno e pazienza” non lo intendo mica per piaggeria: è tecnicamente vero. Campi così non si creano con la lawn che ti trovi già sul posto, né si mantengono con una buona sfalciata quando l’erba pare un po’ alta. Magari. Il lotto è stato totalmente sventrato, con deposito di terra e semina di erba apposita. L’impianto di irrigazione ha richiesto chilometri di tubi. Un agronomo li aiuta nel monitorare lo stato. C’è l’impianto anti-talpe che, inevitabilmente, si fa sentire periodicamente. E, per ultimo, l’erba va ritoccata quotidianamente, a turno. Chi scrive otto anni fa si trasferì da una casa in campagna con giardino ad un appartamento: nella nostalgia di ciò che si lasciava, davvero, non erano compresi i semplici lavori pseudo-settimanali di manutenzione del verde, per cui tutto il mio rispetto va a chi ogni sera inforca gli strumenti per tenere questo gioiellino al livello che si confa al lawn tennis.

Io e Daniele siamo tornati a giocarci il sabato stesso, perché, fatalità, c’era in programma il rodeo della San Marco Tennis Academy e non si poteva mancare. Io, la mia Pro Staff ed il mio gioco in avanzamento siamo tutti finiti fuori al primo turno (evitate ironie, grazie), ma ci siamo lo stesso divertiti un mondo. Perché è il lawn tennis, forse quello più vicino all’origine, quella di uno sport che fosse anche e soprattutto un gioco di abilità e di colpi fantasiosi. So che per alcuni di voi il “vero tennis” è quello sul rosso, di corsa e scambi tirati. Può darsi anche questo, ma… provate a fare un salto a Resana e, magari, converrete anche voi che a volte vale pure la pena divertirsi. Nel modo classico.

Seeding

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Andrea Canella
Andrea Canella
2 years ago

………. la partita, vista da fuori, apparirebbe a mezza via tra una gara di mimi scarsi ed una caccia alle cavallette.

Tra il corto rimbalzo e le inevitabili irregolarità del terreno, anche se sfoggi un polso alla Leander Paes finisci comunque con la palla che ti passa sotto la racchetta. 

Stupendo e molto ben fatta la descrizione dell’esperienza. L’unica cosa che non ho capito è cosa c’entra Inzaghi, quando dici “e proiettarsi in un tuffo che non avrebbe forse reso orgoglioso Becker, ma di sicuro Inzaghi sì.”, non essendo amante del calcio.

Un caro saluto.

Andrea Canella
Reply to  Unforgiven79
2 years ago

Anche da spettattore è stata anche una bella esperienza. Quello che ho osservato è stata la tendenza, ben descritta ad andare incontro alla palla, quando il rimbalzo è in fase ascendente e a colpire di volo. Anch’io ho visto che gli spostamenti, per avere un timing perfetto sulla palla possono essere complicati, specialmente per giocatori nati sulla terra battuta. Poi ti dirò anche che quando hai giocato c’era un sole cocente e forse con quelle condizioni i rimbalzi erano più regolari rispetto a coloro che avranno proseguito verso le ore serali. E comunque complimenti agli organizzatori. Mi sono però chiesto, che se per caso ci fosse stato un amatore Britannico, forse avrebbe goduto del vantaggio del conoscere la superficie e sarebbe stato interessante comparare gli spostamenti laterali e verticali. Ciao

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