Cambio della Guardia
La vittoria di Carlos Alcaraz nella scorsa finale disputatasi sui sacri prati di Wimbledon, alle spese del sempreverde Novak Djokovic, ha fatto risuonare tutte le campane della nostra Contea. Era però difficile distinguere se i rintocchi battessero gagliardamente a festa oppure suonassero a morto: erano l’annuncio gioioso della nuova, giovane era del maiorchin… pardon, del murciano e dei suoi accoliti, oppure ancora veniva sancito il tramonto definitivo dell’inverosimile stagione che è stata quella dei Big 3? Il vero sportivo non nutre dubbi ed esalta sia il trapasso che l’ascesa: “Il Re è morto, viva il Re!”: caro Nole, grazie delle tante mirabolanti avventure tennistiche basate sulle risposte, sui recuperi, sui diritti, sulla solidità mentale che tu ed i tuoi compari svizzero e spagnolo avete profuso in questi anni, ma ora è giunto il tempo dei giovani iper-atleti, quelli dotati sia di potenza muscolare sia di scatto fulmineo. Il cielo appartiene a chi sa tirar forte regolarmente da ambo i lati, che torna alla vecchia incordatura di controllo 18×20 perché non ha bisogno dell’effetto fionda della 16×19 per sprigionare una potenza mai vista, che matura tocco a rete perché ha la rapidità di prenderla in un nonnulla. Grazie di aver rotto il duopolio di Federer e Nadal, ma ora fatti da parte perché la Top-5 sarà monopolio solo di chi saprà essere sia l’uno che l’altro. Troppo, persino per te che sei oramai più vicino ai quaranta che ai trenta.
Mi vengono dunque in mente altre partite speciali, di quelle che sì assegnano il passaggio del turno, ma che allo stesso tempo scavano un solco che il tennis non potrà più riattraversare. Solitamente, inoltre, si concludono con un vecchio leone che rientra negli spogliatoi e passa un tempo imprecisato ad osservarsi allo specchio, scrutando con timore la propria criniera e cercando di capire se sia ancora forte e rigogliosa, oppure oramai smarrita e, diciamo pure, fuori moda. Non accade sempre in una finale, ma spesso chi sa cogliere le dinamiche tecniche, tattiche e storiche vi intravede l’alba che verrà. Quando è accaduto in passato?
1974, finale degli US Open: Jimmy Connors – Ken Rosewall (6-1 6-0 6-1)
E’ tipico delle epifanie l’essere brevi, immediate e fulminee. A chi avesse ancora dubbi circa il tramonto dell’era degli eleganti gentiluomini e dei loro gesti bianchi, il vulcanico Jimmy Connors da St.Louis illustrò il concetto in poco più di un’ora: l’ora più umiliante dell’intera carriera del principe australe Ken Rosewall, l’uomo dal rovescio di seta che aveva incantato le platee in tre distinte decadi. Sull’erba di Forrest Hill, l’aristocratico canguro sperava probabilmente di vendicare lo sgarbo subito due mesi prima, sempre in finale, a Wimbledon da parte di quello strano pugile prestato al tennis. Invece, la grazia sempiterna di Rosewall venne spazzata via da un’improbabile pettinatura a scodella (la più plebea possibile) che raccattava tutto ed il contrario di tutto, rimandandolo di là con una furia mai vista prima.
A livello d’immagine, per il tennis che aveva da poco varcato il confine del professionismo (o meglio, che si era appena rassegnato a farsi regolarizzare il visto) questa partita segnò il tramonto dei nobili fascinosi a favore delle rockstar. Rimasto impermeabile ai personaggi dei Sessanta, nei Settanta il nostro sport rimase ipnotizzato dalla violenza comportamentale di Connors, dai suoi modi impetuosi, il suo carattere emozionale e rissoso, il suo linguaggio minaccioso superato solo da una mimica fisica ormonale ed a volte al limite del pornografico. Rosewall ed i suoi accoliti, a fine partita, porgevano sorridenti la mano all’avversario: Connors allungava malvolentieri la zampa con sguardo immutabilmente di sfida (“Come posso essere amico di qualcuno che è lì per prendersi qualcosa che è mio?”). I bianchi aristocratici si prezzolavano al Pro Tour rinunciando alle glorie degli Slam “veri”, e spesso ne soffrivano, allo scopo comunque di poter mantenere una vita decorosa: Connors platealmente ed indistintamente snobbava qualsiasi competizione che non fosse altamente remunerativa. Trascurava (e fu tra i primi) la Coppa Davis, e da lì vennero i suoi eterni dissapori col più anziano e patriottico Arthur Ashe. I solidi venivano prima di tutto.
Da un punto di vista tecnico, il bello rimase sul campo assieme ai sogni di gloria di Rosewall e venne sostituito dall’efficace. L’emblematico bel rovescio ad una mano dell’australiano (lindo, slanciato ed alto) venne fatto a pezzi dai colpi di maglio dell’americano il cui gesto a due mani (piatto, ficcante e basso) rappresentava una novità assoluta ai piani del potere. Per di più, l’attacco netto e persistente dei Bianchi era andato a cozzare contro il contrattacco fiero, energico e martellante di questo pugile mancato, nuovo campione di una competitività senza se e senza ma, più adatta ai nuovi tempi professionistici che, sull’erba di Forrest Hills, sgretolarono per sempre i bei vecchi tempi andati.
1984, finale del Roland Garros: Ivan Lendl – John McEnroe (3–6, 2–6, 6–4, 7–5, 7–5)
Fa un po’ strano inglobare questa partita tra i “cambi della guardia”, dato che fra i due protagonisti sussiste una differenza d’età pari ad un solo anno (SuperMac è nato nel 1959, Ivan il Terribile nel 1960). Eppure, di questi due quasi coetanei, a livello di gioco l’americano rappresentò il Classico, il ceco il Futuro. Certo, anche a livello caratteriale non potevano essere più lontani: il fumantino, istrionico ed isterico irlandese di NY rappresentava in pieno l’era delle tennis rockstar inaugurato da Connors; se il campo era il suo personale palcoscenico da esibizioni live, una volta uscito dallo stadio le sue serate non avevano nulla da invidiare ai dopo-concerti dei Led Zeppelin, complici i compagni di bisbocce tra cui Borg e Gerulaitis. Il ceco, invece, rappresentava in pieno il professionista, dedito unicamente alla carriera, alla famiglia, all’allenamento, alla preparazione fisica ed a demolire spietatamente gli avversari.
Sommersi dai dollari che, complice l’incremento di popolarità ed il riconosciuto professionismo, sponsor e televisori avevano iniziato a versar loro in testa, molti tennisti avevano iniziato a realizzare che, con una torta tanto appetitosa da spartirsi, sarebbe valso la pena di darsi una rigorosa disciplina in modo da non dover necessariamente lasciarne le fette più grosse ai più talentuosi e pazzoidi. Fra questi, al volgere del decennio Ivan il Terribile era senza dubbio il più determinato, tanto che Supermac stesso, nella sua autobiografia, annota con stupore come il ceco accumulasse chilometri e chilometri in bicicletta mentre lui e i suoi compari si godevano la bella vita.
Detto del lato atletico, anche la tecnica stava evolvendo: i telai intagliati avevano oramai abbandonato il classico legno per gettarsi fra le braccia degli stampi per l’alluminio, poi di quelli per le fibre in vetro, per la grafite e, in procinto di arrendersi alla fibra di carbonio, davano già risultati di performance sconvolgenti. Tuttavia, se McEnroe ne apprezzava il maggior controllo a vantaggio delle propria ineguagliabile sensibilità, Lendl aveva invece capito che essi potevano sprigionare una potenza fino a quel momento mai vista. Combinando una racchetta di nuova concezione con un fisico tenuto costantemente alla frusta, il “fottuto coniglio” aveva dato vita alla più devastante evoluzione del nostro sport: il power tennis. “Ivan Lendl? Un gran servizio, un gran diritto, un gran rovescio.” fu come Rino Tommasi lo sintetizzò ed, in estrema sintesi, riuscì a tratteggiare sia i motivi per cui divenne un vincente, sia quelli per cui, allo stesso tempo, fosse destinato al non venir mai amato come McEnroe.
Tuttavia, insensibile alle romanticherie, e beffardo nel compierlo proprio nella città più romantica del mondo, quel pomeriggio di inizio di giugno il terribile power tennis spodestò il tennis classico dal suo trono. Un poeta maledetto parigino non avrebbe potuto comporre un poema epico più ricco di simbolismi rispetto a quell’emblematica partita: l’artista scende in campo a testa alta, ebbro del proprio talento innato e dell’adorazione delle folle, sciorina per due insindacabili set il suo tennis pieno di tocchi, di magie, di traiettorie dipinte, di balletti ad un metro dalla rete e sembra che la musa stia per ricevere il suo dono. Poi, però, la sensibilità portata all’estremo che impregna l’animo dell’artista gli si rivolta contro ed uno sciocco ronzio proveniente da una cuffia a bordo campo, non l’avversario, lo destabilizza. E’ lì il momento in cui il professionista, freddo come un sicario, capisce che è il suo momento: lui ha la caparbietà e la tenuta fisica, forgiate dagli spossanti allenamenti, nonché la costanza dei suoi colpi potenti, facilitata dall’assenza di aspirazioni artistiche. L’artista sprofonda nel proprio psicodramma ed abdica, mentre il professionista porta a casa i tre successivi set e raggiunge la prima, determinante tappa della propria carriera al vertice.
Ignoro onestamente quanti all’epoca si fossero resi conto, nel vedere Ivan Lendl sollevare la Coppa dei Moschettieri a fianco di uno sconsolato McEnroe, che si era giunti ad un punto di non ritorno: a dispetto dell’illusorio US Open vinto in casa dal Superbrat qualche mese dopo, da quella domenica del 1984 non si sarebbe più potuto né scalare il vertice della classifica ATP né portare a casa uno Slam senza una preparazione atletica meticolosa (come Wilander, Muster, Bruguera), oppure colpi potentissimi (come Becker, Agassi, Kafelnikov), oppure entrambi (Sampras). La capacità di tocco era stata confinata al ruolo di valore aggiunto: apprezzabile, ma non essenziale. D’altra parte, era il segno dei tempi: in quegli stessi anni la slowhand di Eric Clapton aveva dovuto cedere il passo allo shredding di Edward Van Halen…
1997, finale del Roland Garros: Gustavo Kuerten – Sergi Bruguera (6-3, 6-4, 6-2)
Ancora a Parigi, nella finale di quattordici anni dopo, lo scenario era apparentemente ben altro. I due finalisti non si disputavano il vertice della classifica, anzi, ne distavano diverse leghe (sarebbe verisimile, oggi?) e, pur divisi nella tecnica dei fondamentali, erano accomunati da un’anima latina, un fisico asciutto e scattante, ed infine una tendenza a colpire il diritto in open-stance.
La carriera dell’oramai esperto Bruguera, che si era già portato a casa due Roland Garros di cui il primo battendo in finale nientemeno che “Big Jim” Courier, pareva porlo decisamente in vantaggio rispetto al giovane ed ancora sconosciuto Kuerten. Invece, fu una mattanza. E anche una rivoluzione.
Quello che il povero Sergi probabilmente non sapeva era che il suo avversario brasiliano, oltre a possedere ovviamente un potenziale tecnico ben superiore alla sua classifica dell’epoca, era stato tra i primi ad intrecciare sul proprio piatto-corde i nuovi prodotti avveniristici in poliestere (le cosiddette “mono”, cioè mono-filamento). Fino ad allora sui telai dei tennisti venivano montate corde multi-filamento: flessibili, morbide, buone per un bell’effetto-fionda e dalla vita breve. Giusto i pro più benestanti si concedevano l’arcaico budello, più performante, ma ancor meno durevole. Nel 1991 una semisconosciuta azienda belga produttrice di filamenti, la Luxilon, lancia un nuovo modello che passerà alla storia con un nome che dice tutto: le Big Banger. Tre anni dopo Luxilon porta sul mercato l’intera famiglia delle corde Alu Power: quel non so che di metallico che anima la corda rivolta come un calzino l’approccio ai colpi da fondocampo (e consente una longevità maggiore dell’incordatura, dettaglio che a noi tirchi dilettanti non guasta).
Kuerten, di suo, giocherebbe sì con la stessa racchetta Head (la PT57A, un’altra leggenda di quegli anni) con la quale Thomas Muster aveva vinto su quel campo giusto un paio d’anni prima, ma al suo braccio fatato vengono in aiuto le nuove meraviglie della Luxilon. Può dunque tirare topponi a tutto braccio senza paura, ché il controllo totale esercitato dalle nuove corde gli consente di far comunque atterrare la palla dentro il rettangolo di gioco, sbattendo sui teloni uno spaesato Bruguera, che pure era uno che aveva passato la carriera evitando accuratamente i colpi di controbalzo…
Tre veloci set ed il riccio sudamericano può esultare per il proprio primo, inaspettato major al cui ne seguiranno altri due insieme ad un’edizione delle ATP Finals ed il n.1 del ranking. Negando fra lo stupore generale il terzo Roland Garros a Sergi Bruguera non ha mandato in pensione lui, ma la sua racchetta. I potenti telai in fibra di carbonio composito, nati vent’anni prima, hanno trovato il proprio compimento nelle nuove corde “mono” che consentono di sbracciare liberamente, motivo per cui possono passare da pesi attorno ai 330g a sotto i 300g; inoltre, svanita la necessità degli spigoli per poter “sentire bene” la palla, le racchette possono assumere un profilo più tubolare ed aerodinamico: sono nate le “padelle supersoniche” di clericiana memoria. Pochi anni dopo, alla prima partita vista da spettatore dopo un sofferto ritiro forzato, Ivan Lendl rimarrà a bocca aperta nel vedere palline tirate con parabole esagerate e che, miracolosamente, rimangono in campo.
In quella finale del 1997 le “mono” tolsero definitivamente alle “multi” il dominio delle racchette: tutti i pro oggi montano, se va bene, un’incordatura ibrida per massimizzare il meglio delle due famiglie (il sempre composto Federer, ma anche il tuonante Djokovic), tuttavia sempre più spesso optano per un’incordatura full poly (vedasi Nadal, ma anche il supposto classicheggiante Tsitsipas) e vanno all’arrembaggio. Fu pure, di rimando, anche il tramonto definitivo del serve’n’volley, perché le corde dal controllo totale consentono ai ricevitori di rispedire indietro con gli interessi la palla di servizio, infilando il malcapitato nostalgico come un tacchino da girarrosto.
La cordage est mort, vive la cordage!
2001, ottavi di finale di Wimbledon: Roger Federer – Pete Sampras (7-6 5-7 6-4 6-7 7-5)
Pistol Pete ci credeva ancora. La schiena aveva cominciato a scricchiolare, i ribattitori ribattevano sempre meglio, gli altri i servitori avevano sempre meno motivo di invidiare una prima appena sopra i 200km/h, le corde non erano più quelle di una volta ed i nuovi piatti corda facevano apparire striminzito il suo da 85” quadri. Il serve’n’volley puro stava tramontando con lui (e Rafter, e la compagnia proprio del cangurotto che aveva osato sconfiggerlo agli US Open probabilmente gli dava ancor più fastidio), insieme al diritto piatto con presa pure eastern che oramai usava quasi da solo. Eppure, a Wimbledon 2001 ci credeva ancora: sull’erba era ancora il n.1, quasi imbattuto da sette anni sui sacri campi (con l’unica onta di Kraijcek oramai confinata nel tempo) ed il vetusto diritto filava comunque via che era una bellezza. Inoltre, il suo servizio poteva essere stato pareggiato in velocità, ma non ancora in previsione nel trovare gli angoli, prima o seconda che fosse. Un nuovo Sampras non si vedeva all’orizzonte perché i giovani non giocavano più come lui, ed il suo spauracchio Agassi non l’avrebbe potuto impensierire, soprattutto dopo la ramazzata che gli aveva dato l’anno prima in finale.
Quello che Pete Sampras non aveva messo in conto era l’avvento di un giovane tennista un po’ diverso dagli altri, proveniente da un Paese che tennisticamente non aveva mai prodotto nulla per cui urlare al miracolo, dall’animo precisino ma ancora traboccante di juvenile anger. Questo nuovo venuto elvetico (ma mezzo sudafricano, e da lì già qualcosa di meglio era venuto fuori) lo avrebbe spiazzato perché aveva sviluppato uno stile di gioco che era effettivamente l’uovo di Colombo tennistico: se vuoi poter battere sia Sampras che Agassi, devi saper giocare come Sampras ed Agassi!
Insomma, se Pistol Pete era convinto che il tennis classico sarebbe morto con lui, e la scena rimasta in mano a degli Agassi della mutua, non gli si poteva dare del tutto torto: che l’avrebbe immaginato che un giovinastro, innamorato di lui, di Becker e di Edberg, avrebbe mischiato il loro gioco con quello moderno, con l’anticipo da fondocampo e tutto il resto?
Ecco allora che, appena giunto alla seconda settimana di quei Championships, il vecchio campione di trova di fronte questo suo anomalo fan, il quale da una parte lo omaggia con serve’n’volley e discese a rete, e dall’altra gli manca di rispetto infilandolo costantemente a rete. Forse a Sampras basterebbe portare a casa il primo set per ricordare a Federer chi è ancora il boss che comanda, ma nel tie-break una combinazione tra la dea bendata e la scarsa fiducia degli anziani verso la tecnologia (“It’s way out!”, urlato da Pete più al ciclope elettronico che all’arbitro, finendo per fare francamente un po’ tenerezza) danno allo svizzerotto dal naso a patata un’iniezione di fiducia quantomeno necessaria.
Andrà a finire dunque, come sanno anche i sassi di Church Road, con un break decisivo strappato alla fine del quinto set grazie all’ennesima risposta vincente sulla prima di Sampras, che era disceso ancora a rete e si ritrovò quindi a dover anche scendere dal trono.
Il suo sguardo, alla stretta di mano, diceva tutto ed è il motivo per cui è la copertina di questo post. Non avevo mai visto Pete Sampras fare quell’espressione, nemmeno quando, negli anni Novanta, gli era capitato di perdere contro qualche carneade terraiolo; solitamente manteneva il suo sguardo inespressivo, gli occhi immobili a fissare l’avversario di turno senza alcun particolare riguardo (“Perché dovrei osservarti? Di te mi dimenticherò subito. Il tuo successo è scolpito nell’acqua.”), segno che già pensava al prossimo torneo ed all’inevitabile riscatto. Quel giorno, invece, gli occhi erano bassi, dimessi. Lì alzo sul giovane Roger e per un attimo, uno solo, ci fu un lampo di triste rimprovero, quasi a dirgli: “Perché l’hai fatto? Proprio tu…”. Federer probabilmente non notò nulla: i suoi occhi stavano già cominciando a trattenere, come al solito inutilmente, l’inevitabile pianto liberatorio. Pistol Pete, poi, raccolse velocemente le sue cose e prese ad uscire dal campo, più ingobbito del solito, tanto che non dovette nemmeno piegarsi per fare l’inchino al Royal Box.
Quel giorno uscì di scena il tennis del Ventesimo secolo: cominciava quello del Duemila e, con esso, prendeva forma il futuro regno di Re Roger.
Articolo di grande livello, sia per forma sia per contenuto. Chapeau
Bellissimo articolo, con tutti i passaggi salienti della storia dello sport della racchetta. Io ci avrei messo anche Djokovic Vs Federer finale di Wimbledon del 2014, dato che da lì in poi Roger non riuscirà più a battere Nole a livello slam.
Ottima scelta Kuerten Vs Bruguera con l’avvento delle corde monofilamento. Da dire però che fisici rodati su attrezzi ultra performanti per via di corde monofilamento e telai in fibra di carbonio, favorivano gli infortuni. Kuerten era quasi sempre rotto, avendo disputato stagioni intere al top della forma di rado.
Mi piace leggere che per battere Sampras bisognava essere un po’ Sampras e Agassi allo stesso tempo, così come per battere Djokovic bisogna essere un po’ Djokovic, Federer e Nadal allo stesso tempo.
Per il resto complimenti.