Credere in Grigorio, ovvero il Bello
Se c’è qualcosa per cui valga la pena persistere nel credere, persino in questi tempi freneticamente meccanici che stiamo viviendo, questa cosa è che il Bello alla fine trova sempre il modo di riemergere dalla fossa in cui troppo frettolosamente lo seppelliamo. Troppo spesso, infatti, sprechiamo una notevole quantità di tempo nel lagnarci di come i tempi andati fossero gentili, onorevoli, diritti, genuini,… e chi più ne ha più ne metta. Tendiamo a dimenticare (o, almeno, tendono a farlo quelli che ci ammorbano l’esistenza con queste spocchiose lagne) il fatto che, fossero davvero stati tanto paradisiaci e perfetti quegli usi passati, nessuno si sarebbe mai sognato di lasciarli andare alle ortiche. E’ più probabile, difatti, che fossero anch’essi feroci, disonesti ed ipocriti, almeno quanto i nostri, dato che non vi è epoca di cui gli autori ed i memorialisti contemporanei di turno non denunciassero l’ignobile decadenza.
Il tennis non fa eccezione: i nostalgici del serve’n’volley non passano giorno senza piangere calde lacrime sulla lapide di quello che è un po’ il Pallido Duca Bianco degli stili di gioco, maledicendo fra l’altro il Board barbaro dell’All England Lawn Tennis & Croquet Club che all’epoca osò disporre di rallentare l’erba di Wimbledon, nonché tutte le resine stirate sopra i campi in cemento sparsi ormai un po’ ovunque nei tornei di tutto il mondo. E’ la memoria di un Eldorado che non è mai esistito, ovviamente. L’illusione consiste nell’associare mentalmente ed indissolubilmente il rimpianto stile alla Holy Trinity delle finali di Wimbledon targate Edberg-Becker, all’ellenistica perfezione di Pete Sampras, al “Rocket” Rod Laver, ai deliziosi tiri mancini di McGenius e del nevrotico Leconte… insomma, ai soli primi della classe. Ci si dimentica, colpevolmente, che la stragrande maggioranza della banda di affacciatori a rete costituiva il restante 99% delle partite di ogni torneo, anche del più illustre, e non sempre lo spettacolo valeva il prezzo del biglietto. Sì, i due tizi in campo “facevano s’n’v”, ma ciò garantiva solo che il punto si sviluppasse in un tic-tac frenetico, mica che il colpo a volo fosse delizioso o aggraziato. Alla lunga, tutti questi tic-tac potevano facilmente stancare e risultare, ci credereste?, un po’ noiosi. L’onomatopea del punto di sciorinava troppo spesso così: bang!-paf!-poff!-(clap-clap-clap!)… perché l’applauso finale era più spesso doveroso che sentito.
Chi scrive ama, d’altra parte, impiegare il serve’n’volley come amabile variante di gioco per spezzare il ritmo, sorprendere l’avversario e, non da ultimo, confortarsi circa la bontà del proprio tocco della palla; l’affetto per questo schema di gioco sorpassa persino l’alto rischio di essere infilato senza misericordia come un tacchino, a causa di un primo servizio o, ahimè, di uno scatto a rete troppo lenti. Mi piace da morire, ma lo ritengo alla stregua del Rap o del growl metallaro: vanno bene per un breve stacco drammatico all’interno di una canzone, ma mi strozzerei piuttosto di ascoltarne un intero pezzo musicale.
All’estremo opposto, non riesco a comprendere chi associ il gran punto con il rally eterno da 48 colpi, magari concluso con un errore non forzato: io lo associo piuttosto ad una Via Crucis con martirio finale di uno dei due contendenti. “Keep the rally going!” sembra essere il comandamento che, negli ultimi anni, ha portato moltissimi tornei a stendere strati e strati di resina sul cemento dei propri campo (nonché, sussurrano i malevoli e lamentano i top player, a sgonfiare le palline), all’unico scopo di allungare all’inverosimile gli scambi delle partite. Oltre a mandare in disperazioni i fisioterapisti, il vincente esaltante diventa sempre meno probabile, a causa della riserva di energie che va a svuotarsi.
Il Bello, come troppi dimenticano, non è mai noioso. Questo è il punto. Il tennis ha avuto successo grazie alla possibilità di confrontare stili diversi, ma anche e soprattutto di impiegarli in varietà anche all’interno della stessa partita: la noia, siamo sinceri, è sempre incombente sopra le partite del nostro sport preferito e va dunque scacciata. Due ore di topponi sul rosso tra una lepre spagnola ed uno stakanovista argentino sono francamente una tortura che andrebbe inflitta solo al proprio peggior avversario come vendetta per l’ultimo 5-7 subito, così come un secondo turno di Wimbledon 1987, in cui al massimo cinque punti sono andati oltre i quattro scambi. Meglio allora cercare il Bello selezionando con cura la partita da guardare, o meglio selezionando quella in cui almeno un giocatore possa vantare un arsenale di colpi tecnico e vario, pronto a variare ritmi e soluzione durante lo svolgimento della partita. Peccato che non siano molti.
Il Bello, allora, attualmente a me pare limitarsi quasi al solo Grigor Dimitrov. Ammantato da un bell’aspetto che mai guasta, il bulgaro si muove in campo con una grazia sì quasi svizzera, ma accompagnata da un atletismo e da lunghe leve meritevoli come quasi nessuno: le sue spaccate, da sole, valgono il prezzo del biglietto. Varcata ormai da un po’ la soglia dei trent’anni, il Grigorio si è ormai affrancato da un pezzo dalla pesante etichetta di Baby Federer che comprensibilmente gli era stata appiccicata addosso (e poiché il pubblico non impara mai nulla, anche quella di L’Erede ha prodotto poi notevoli danni con Tsitsipas) e può quindi librarsi in totale indipendenza sui campi del Tour, sciorinando il suo gioco che, oggi come allora, è appunto bellezza pura tradotta in movimento.
Certo, al netto delle aspettative il suo Bello non è stato fine a se stesso: ha portato a casa il best ranking di n.3 al mondo, un titolo di Maestro grazie alla vittoria alle ATP Finals del 2017, il Master 1000 di Cincinnati ed un paio di semifinali Slam. Anche per i tennisti dotatissimi tecnicamente, è tanta roba. Purtroppo non vale quello che altri colleghi più estemporanei sono riusciti a mettere assieme (penso alle due finali di major del più ozioso Phillippoussis o al n.1 del mondo Rios, di carattere molto meno amabile).
Grigorio rappresenta però il Bello in senso quasi assoluto: elegantemente composto in tutti i fondamentali, cresciuto con un’impugnatura eastern che andrebbe oramai fatta proteggere dall’UNESCO (e con la quale riesce comunque ad arrotare alla grande, alla faccia di quanto professato negli ultimi anni), questo incredibile giocatore semplicemente non sa colpire la palla in modi che appaiano sgraziati o fuori equilibrio. Quando è costretto a raccogliere la palla in allungo, più che distendere le gambe, le dispiega. Il rovescio viene identificato come suo tallone d’Achille, il che è un gran classico per i monomani, dato che pure Sampras, Federer e Tsitsipas subiscono la stessa critica; nel suo caso, viene descritto come “troppo debole”. Sarà. Eppure, da quel lato back e slice fanno adeguatamente il loro lavoro del variare il ritmo dello scambio, mentre il colpo piatto va in onda solo a fine trasmissione… ma quanto è definitivamente bello quando lo lascia andare?
Ricordo in particolare un Wawrinka-Dimitrov di qualche anno fa: non una finale, bensì un primo turno di Cincinnati, giocato a metà di un pomeriggio bigio e di suo abbastanza triste. Solitamente, queste giornate di torneo sono dominate dalle gare a pignattate tra coppie di rappresentanti dell’ottima manovalanza della racchetta, con poca fantasia e spesso pure dotati di mano lignea. Sarà perché si trattava di due monomani, nonché nobili caduti, ma mi dedicai invece alla partita; fu un 5-7 6-4 7-6 col quale lo svizzerotto di torso robusto portò a casa la partita, ma soprattutto fu tutto un sincero applauso per il gioco vario ed accattivante che gli spettatori si portarono a casa, appiccicato alle pupille. Grigorio, per parte sua, mise sul piatto i suoi diritti in perfetta distensione (che nulla hanno da invidiare a quelli di Sinner), le sue volée e mezze volée da ogni angolo nei pressi della rete, i rovesci in lungolinea, ma anche in diagonale di puro polso. Mai, mai una volta si accartocciò su se stesso, neanche a seguito di quelle tremende accelerazioni che lo Stanimal sa ancor oggi, alla soglia dei quarant’anni, imprimere alla povera pallina di turno.
Quando quindi poi vince, Grigorio il Bello aggiunge un’aura di rinascimentale magnificenza al tutto: penso allora al torneo del Queen’s del 2014, in cui l’erba venne sì accarezzata dai suoi colpi soavi, ma allo stesso tempo il povero pluri-vincitore Deliciano Lopez venne sbatacchiato qua e là dai suoi notevoli colpi, che pure gli cancellarono un Championship point nel secondo set, per la disperazione sua e delle numerose ammiratrici dell’affascinante spagnolo (compresa, dichiaratamente, la madre Judy del campione uscente Andy Murray). Ecco, un Queen’s che si conclude fra i lampi di bellezza in campo di Dimitrov e gli alteri applausi in tribuna dell’allora compagna, quella Maria Sharapova dall’algido fascino biondo a fare da appropriata cornice al tutto, secondo me non ha nulla da invidiare ad un Wimbledon come quello della sciagurata edizione 2002, che si concluse con una sciatta finale Hewitt-Nalbandian in cui a nessuno dei due contendenti venne mai in mente di variare un po’ l’atroce noia dello scambio ad dolorem provando a prendere in controtempo l’avversario o, magari, ad attaccare la rete.
Questo è il motivo per cui io ancora credo nel Bello, nel tennis, ed in particolare in Grigorio il Bello. Svincolato ormai dal dovere (non onorato) di essere la Next Big Thing, già precipitato in classifica almeno due o tre volte e regolarmente risorto fino al recente ritorno, meritatissimo, in Top10, assunto ormai a chioccia delle nuove forze di vertice, amato e rispettato ovunque, amato dalle donne ovunque, il bulgaro può finalmente giocare libero e di puro slancio. Non deve vincere con regolarità, perché nessuno glielo chiede più, ma ad ogni settimana in cui gli astri gli si allineeranno e porterà a casa una coppa, quel torneo ne uscirà con maggior lustro e risalto di tutti gli altri di pari livello (almeno). Ad Alcaraz e Sinner viene richiesto, ed a gran voce, di sganciare i loro missili con costante spietatezza ogni giorno che l’etere manda in onda una partita, di vincere, convincere, e soprattutto pensionare quel serbo che non se ne vuole intendere. A lui, no. E poco gliene cala, al pubblico, se Grigorio poteva essere un’ottima sintesi tecnico-atletica di Federer e Djokovic: i paganti vogliono solo che lui porti il suo bel tennis in campo, vestito di tutto punto dagli eleganti completi Lacoste (che ha fortunatamente rimpiazzato la Nike ed i suoi osceni pigiamoni psichedelici in cui lo avvolgeva negli ultimi tempi del suo contratto) e coniughi il Vario, il Tocco ed il Leggiadro come lui solo, temo, sa fare sul palcoscenico targato ATP.
Di tempo per un ultimo trionfo clamoroso, ancora ne ha. Ché poi, il Bello va a braccetto con l’Eterno, mentre il tanto ricercato Funzionale non può che rimanere incatenato all’evanescenza dell’oggi.
Stupendo il tuo articolo. Me lo sono proprio gustato. Ineccepibile.
L’unica cosa su cui avrei da ridire è che a Charlie non sempre chiedono
, nel senso che a lui chiedono anche i tocchi di classe e punti da highlights.
Penso che se Dimitrov fosse nato negli anni 90 forse avrebbe portato a casa qualcosa, Sampras e Agassi permettendo.