Le Due Torri, e le Due Misure
Juan Martin è per tutti il Bianco, ma Matteo per troppi è ancora il Grigio.
Li aspettavo al varco. Tutti. Alle porte di Mordor del ritiro tennistico, vegliavo nell’attesa che comparisse non lui, il Gigante Buono dal Diritto Assassino, ma lo stuolo dei suoi estimatori che lo seguivano: orchi feroci della peggior specie, creature feroci e selvagge, dedite solo all’ozio del servizio & diritto con cui pasteggiare voracemente del cadavere dello sconfitto.
Ohhhhhh… quanti sono? Ma quanti? Inneggianti alla Torre di Tandil, colui che nel 2009 a New York fece per valore il gran rifiuto, resistendo proprio alla tentazione di cadere nell’ignavia di essere l’ennesimo finalista di circostanza alla corte di Re Roger, l’ultimo di una serie di co-protagonisti che, loro malgrado, per la maggior parte degli anni Duemila venivano invitati alla serata finale degli Oscar senza alcuna speranza di poter ritirare la statuetta. Sì, bisogna dare atto a Juan Martin di essersi sottratto con valore al destino mesto di Jo-Wilfried Tsonga, di Marcos Baghdatis, di Fernando Gonzalez,… di non so quanti altri disgraziati, campioni affermati col braccio che valeva se non uno magari più Slam, ma le cui ambizioni furono frustrate e rispedite al mittente, se non personalmente dal Maestro di Basilea, alternativamente dal suo socio in affari, il Toro di Manacor.
Indifferente a tutto ciò che gli si muoveva attorno, lassù nel gotha della Top-10 tennistica, Del Potro menava fendenti di diritto a tutto spiano, spazzando via ogni inavveduto difensivista che riponesse le proprie speranze in un calo della violenza di quel colpo. Non sembrava nemmeno troppo impressionato dall’arrivo di due nuovi Fab ad aggiungersi a quelli del Fedal: Djokovic, che si sarebbe preso gli anni Duemiladieci, ed il suo gemello diverso Murray, che si sarebbe preso il 2016 ed un titolo di Sir. L’argentino si è lo tranquillamente permesso il lusso di frustrare due volte il fervente serbo alle Olimpiadi, battendolo una volta nella finale per il bronzo e poi addirittura al primo turno. Con lo scozzese, invece, si limitò a simpatici battibecchi in campo ad inizio carriera, con secche rimostranze all’indirizzo suo e dell’arcigna madre Judy, espresse a mezza voce nell’inconfondibile tono roco argentino. Poca roba, tra l’altro presto abbandonata dal Gigante Buono di Tandil.
Non starò qui a ricordare come la sorte sia poi stata indubbiamente avara di supporto per Juan Martin, fratturandogli un’articolazione alla prima occasione utile: polso, spalla e ginocchia. Un sequenza di gatti neri gli hanno attraversato il campo come forse solo al kamikaze della riabilitazione Nishikori, ma da cui lo dividono trenta chili buoni di massa in più, a tormentare ogni volta il punto fratturato. A parziale conforto ci sono state le medaglie olimpiche portate a casa, oltre ad un titolo pesantissimo ad Indian Wells, nella folle windy final del 2018 in cui annullò un match-point ad un Federer sì nuovamente appena tornato n.1 del mondo, ma al quale evidentemente Del Potro si deliziava di rompere le uova nel paniere. Il canto del cigno fu poi tornare sul luogo del delitto, di nuovo in finale a Flushing Meadows, nel 2018 contro Djokovic. Il serbo però è uno che i match-point li converte e, quindi, il miracolo non si ripeté una volta di più, con buona pace dei romantici (che nel tennis continuano ad abbondare inspiegabilmente). Di lì ad un mese calò definitivamente il sipario e, con gusto dolceamaro in bocca, posso riferire che ebbi il dubbio onore di vedere il suo ultimo tango arrestarsi di brutto, ai quarti del Master di Shanghai contro Borna Coric: un brutto cambio di direzione, la perdita dell’equilibrio, la fragorosa caduta di peso del suo corpaccione sull’incolpevole rotula, il ritiro poco dopo. Dagli spalti tememmo tutti che quello fosse davvero l’ultimo tango di Del Potro, ed in un certo senso lo fu: l’ultima volta che l’argentino giocò da giocatore sano. Da lì in avanti ci furono solo comparsate incerte durante il 2019, concluse da un’altra caduta simile al Queen’s: l’ultimo gatto nero, quello che chiuse le trasmissioni.
E’ stata dunque una carriera romantica, quella che Juan Martin Del Potro da Tandil si appresta a chiudere ed a mandare in soffitta a beneficio degli specialisti di tennis, che nei suoi confronti sono sempre generalmente stati molto benevoli: vuoi il carattere amabile, anche in campo, vuoi il diritto inimitabile, vuoi perché metteva in difficoltà la Fab connection, lo hanno sempre scritto e descritto come socio di diritto del club dei migliori. Ricordo che, dopo la sua vittoria allo US Open, un veterano disse che stava tramontando l’era di Federer e Nadal, mentre era nata quelle di Djokovic e Del Potro (profezia azzeccata per il 25%), mentre in molti in seguito ebbero a sostenere che non si doveva parlare di Fab Four, ma Fab Five, perché solo gli infortuni impedivano a Juan Martin di contendere i titoli ai quattro mammasantissima del tennis, ma il suo livello era comunque evidentemente quello e lì doveva essere considerato (fossi stato in un Berdych, un Soldering od uno Tsonga, avrei avuto da dir la mia).
Quello che quindi mi appare inspiegabile non è tanto questa benevolenza diffusa verso l’argentino, che verosimilmente la merita, quanto la diffidenza perpetua verso la Torre nostrana che, a furia di gomitate e colpi al fulmicotone, pure di è guadagnato il diritto di stare nel clan dei Migliori: Matteo Berrettini. L’attuale n.1 italiano ha parcheggiato ormai da tre anni il suo ingombrante fisico nella Top-10 mondiale, a furia di risultati di un prestigio che così continuativo, francamente, non si era mai visto nel panorama italiano da che ne ho memoria. Eppure, dagli appassionati il tennis di Berretto è spesso bersagliato di critiche ingenerose, che lo trattano alla stregua di una specie di eroe per caso (d’altra parte, Panatta era quello sì talentuoso, ma che “non aveva mai voglia di allenarsi”, quindi di cosa ci stupiamo?).
Facendo una premessa doverosa, cioè che nessuno dei due esprime pienamente lo stile di gioco che piace a me, cerchiamo di metterli a paragone mantenendo una certa obiettività (poca, però, stiamo pur sempre ciarlando di tennis):
Vedete quindi che le Due Torri non sono poi così dissimili fra loro. Io ignoro se Berrettini riuscirà mai a diventare anche lui il Bianco, consacrandosi con la vittoria in uno Slam dopo averla un po’ accarezzata l’anno scorso a Wimbledon, ma so che la sua cifra tennistica non è troppo lontana da quella di Del Potro, nel bene e nel male. Non vado pazzo per il suo gioco ed il suo diritto contratto all’inverosimile mi dà gli incubi di notte, ma l’uno e l’altro assieme lo hanno installato con pieno merito lassù in alto dov’è adesso, oramai temuto da tutti i giocatori dalla Top-20 in giù.
Mai me lo sarei aspettato, quando lo vidi in televisione la prima volta qualche anno fa, durante le qualificazioni degli Internazionali di Roma: pensai che sarebbe diventato un “classico” giocatore italiano di punta, da best ranking al n.75 del mondo o giù di lì (che già è tanto, anzi tantissimo). Invece ha impostato una carriera molto più vicina a quella di un Del Potro, quindi devo ammettere di essermi clamorosamente sbagliato. Lo farebbero in tanti, se si degnassero di giudicarli secondo la medesima misura.